La fine dell’estate non è l’inizio di niente. E, a capirlo, vivremmo meglio.
Ciao, io sono nocomics e questo è un nuovo episodio di solo storie tristi, la newsletter che - una volta al mese - porta un po’ di cinico realismo e tristezza nella tua inbox. Oh, hai deciso tu di iscriverti. Io non voglio responsabilità.
Mancano pochi giorni e anche quest’estate sarà arrivata alla fine. O meglio, a finire sarà quel periodo dell’anno che chiamiamo estate, perché con il cambiamento climatico potremmo fare grigliate di ferragosto a Natale. Quindi è tutto ancora più relativo.
Relativo come tutti i buoni propositi.
Ma, soprattutto, come tutti i buoni propositi di settembre.
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Io li odio, i buoni propositi di settembre.
Per diversi motivi, ma soprattutto per uno, che proprio non riesco a farmi andare giù.
Il punto è: in un anno ci sono 365 giorni. E su questo non c’è niente da obiettare. Tra 302 e 306, ogni anno, sono lavorativi. LAVORATIVI, capito? Quindi sono quei giorni in cui ti svegli, sai che non avrai una vita per te, passi così otto ore, torni a casa, modalità ameba, modalità cibo, modalità sonno.
Giusto?
TRECENTOSEI su trecentosessantacinque.
Questo significa che restano liberi 59 giorni all’anno.
Di questi, 15 circa sono le vacanze estive.
QUINDICI.
Ecco, ora qualcuno mi spiega perché in questi quindici giorni dovrei aver voglia o stimolo di pensare a come migliorarmi? A come diventare una persona migliore per quei 306 giorni lavorativi all’anno?
Dove la trovo la forza per pensarmi più attiva, più sportiva, più performativa, più sostenibile, più concentrata, più dolce, più carina, più gentile e meno aggressiva, meno lunatica, meno triste, meno frustrata, meno antipatica, meno incazzata e meno disillusa?
E soprattutto, perché dovrei trovarla, la forza?
Io non ho voglia. Ma neanche di pensare di farlo, figuriamoci farlo.
In quei quindici giorni di ferie su trecentosei giorni di lavoro ho solo voglia di pensare a come sopravvivere. A come trasformare quel senso di schiacciamento che sento sul petto ogni mattina in qualcosa di buono, o almeno in qualcosa che non m’impedisca di respirare.
In quei quindici giorni di ferie su trecentosei giorni di lavoro devo concentrarmi su come rimanere in piedi, intera, intatta in un mondo che ogni giorno mi scaglia addosso qualcosa di molto pesante e prova a schiacciarmi.
In quei quindici giorni di ferie su trecentosei giorni di lavoro devo restare focalizzata per non farmi trascinare dall’ecoansia, dalla paura di venire travolta da nonsocosa mentre dormo, mentre cammino o mentre respiro.
In quei quindici giorni di ferie su trecentosei giorni di lavoro devo pensare a cosa fare del mio futuro, a come conciliare il dover lavorare con la necessità di non vivere più in una città dove l’aria è costantemente pesante, dove alle due c’è il sole e alle tre c’è un temporale tropicale con qualche uragano sparso.
In quei quindici giorni di ferie su trecentosei giorni di lavoro devo stritolarmi le meningi per ricordarmi le cose belle, devo sforzarmi a pensare a come stare al mondo.
Non ho tempo per pensare a come essere migliore.
Quindi scusatemi, ma non lo sarò.
Non so voi.
E con questo siamo alla fine di questo episodio settembrino.
Sto pensando a varianti e variabili di questa newsletter, quindi se hai suggerimenti, consigli, critiche o desideri rispondi a questa mail!
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